Tremila anni fa, poco meno, crea una certa distanza; e poi, storia sacra... Però, brutta faccenda, più degna di Macbeth che di un Unto del Signore! Ma, insinuo, e se fosse stato proprio il Signore a combinare tutta quella scelleratezza che non possiamo astenerci dal giudicare? Vediamola da vicino, col senso morale in allerta, se ancora ne esista.
Il racconto è nel libro II di Samuele, capitoli 11 e 12. Il re David non riesce a pigliar sonno, si alza e si mette a passeggiare sulla terrazza della sua povera ma bene guardata casa di Gerosolima, guarda giù e cosa vede? Una giovane vicina bellissima che in un mastello di acqua tiepida, aiutata da una serva, sul far del giorno, si sta lavando ritualmente, cessata l’impurità mestruale, le applaudite vergogne. Non capita tutti i giorni; bisognava essere un re. David chiama un servo e gli dice di informarsi su chi sia quella interessante bagnante e apprende che il suo nome è Bat-shevà’ (nota a noi come Betsabea), figlia di Eliàm e sposa di Urìa Hittita, un valoroso capitano dell’armata in guerra permanente del virtuoso re. (Lui non era in casa, o le avrebbe certamente detto di non esporsi a quel modo agli occhi delle terrazze).
David non perde tempo: spedisce subito a casa di Urìa un messaggero per spiattellare a Betsabea il perentorio desiderio del re: «Così dice il re mio signore: avendo contemplato dalla mia terrazza i tuoi lavacri intimi, colpito dalla tua nudità e dalla tua bellezza, mi sarà frescura d’occhi vederti immediatamente in una delle mie stanze. Profùmati e segui il mio messaggero indossando un chitone da regina!». A Betsabea non resta che obbedire, con l’incoraggiamento della serva, che promette di non rivelare niente al valoroso capitano occupato a tagliar teste oltregiordano. Il chitone appena indossato viene, una volta in camera con l’Unto del Signore, prontamente fatto a brani dal monarca, che poi rimanda a casa la bellissima caricandola di doni provenienti da ruberìe (legittime) di guerra.
Eh, ma non è finita! Ci sarà pur stata qualche altra visita! Ed ecco, come nei romanzi moderni, arrivare a David la Buona Novella: «Sono incinta!» gli annuncia Betsabea.
La Scrittura, che impiega in tutto quattro versetti per raccontare la magagna, dà questa gravidanza postmestruale come avvenuta il mattino stesso dei lavaggi rituali. La scienza ginecologica non nega: inoltre là, tra le zanzariere della sacralità avvolgitrice, si tratta solitamente di spermatozoi eterodiretti che vanno dritti allo scopo come le balestre di Azincourt.
David ci pensa su un poco e concepisce un piano incontestabilmente diabolico. Manda a dire al suo generale Ioab di dare subito un congedo provvisorio a Urìa Hittita, marito di Betsabea: il re lo vuole al palazzo. Urìa arriva al galoppo e il perfido re gli dà un ordine ambiguo: «Va’ a casa da tua moglie e làvati i piedi!». Nel metaforico linguaggio scritturale, «làvati i piedi» significa va’ da Betsabea e sbattila sul letto. Per sostenerlo, il crudele despota gli fornisce una gustosa merenda dalle proprie cucine, dove suppongo abbia fatto mettere qualche polvere afrodisiaca.
C’è un intoppo, però. Urìa disobbidisce. Non va da Betsabea, resta coi servi del re, sente di più il suo dovere di onesto militare che voglie di ballo di San Vito, e i servi fanno la spia al padrone di casa: «Urìa non è andato a casa a lavarsi i piedi!». Il re, bene immeschinito in questa storia di donne, lo interroga brutalmente: «Perché mi hai disobbedito?». Il bravo capitano lo guarda negli occhi (e davanti a un antico re semita bisognava prosternarsi; a guardarlo da uomo a uomo eri già morto) e resiste ancora: «Per l’anima mia, sire! Il tuo popolo e gli altri ufficiali patiscono le fatiche e i tormenti della guerra, l’Arca del Signore giace in una misera capanna, e io dovrei mangiare, trincare e godermi Betsabea, standomene a far niente in questo bordello di Gerosolima? Ti prego, rimandami al campo!».
David vuole a ogni costo che Urìa vada a letto con Betsabea, lo trattiene ancora un giorno, gli fa mangiare capperi, pepe, paprika e carni rosse, lo ubriaca... Urìa, sbronzo, caduto ai piedi del tavolo, si mette a ronfare - e a casa, no, non ci va! David vede sfumare il suo piano di attribuire a lui i vomiti gravidici di Betsabea, e lo rimanda in guerra latore di un papiro segreto per il suo generale: «Manda Urìa dove lo scontro è più cruento e lascialo solo in mezzo ai nemici; ritira le truppe a un segnale dato: Urìa Hittita non deve restare vivo». E l’infame sentenza di morte sarà lo stesso Urìa a portarla al suo generale, che ubbidirà senza discutere. Tragico epilogo di un albus cunnus che accende morte! Israele stava assediando la città murata di Rabbàh, capitale degli Ammoniti (oggi Amman di Giordania). Ioab sceglie un punto - una delle porte - e dice a Urìa di appostarsi là con pochi uomini già avvertiti. Gli Ammoniti, vedendo che l’armata di David è schierata lontano e là sotto non ci sono che pochi temerari, escono in forze per massacrarli, ma di colpo gli altri guerrieri spariscono, Urìa affronta il combattimento da solo e in un momento, trafitto da cento spade, il suo cadavere giace nella polvere, e non ci sarà un’Antigone giudea (tanto meno una Betsabea infedele) per dargli sepoltura. Dobbiamo aspettarcelo, uomini coraggiosi: il nostro destino è di essere lasciati soli ad agitare inutilmente la spada, nessuno verrà a bagnare di lacrime la nostra spoglia insanguinata.
Ioab manda un messaggero a David per raccontargli la morte di Urìa, ma David è furioso per la notizia e accusa Ioab di scarsa previdenza, perché ormai Urìa sarà la sua ombra di Banquo. Intanto Betsabea chiama le donne e s’impepla di lamentazioni funebri. Dopo i giorni del lutto, le nozze col re, e Betsabea abiterà con le altre mogli nella sua casa.
Ma non finisce qui.
A Gerosolima l’oracolo vivente del Signore, il profeta, veglia di generazione in generazione. Ed ecco il nabi Nathan salire come un razzo infuocato verso la casa del re, e non c’è guardia armata che possa fermare il Leone di Dio ruggente. Naturalmente, lui non si prostra davanti al monarca! Gli racconta un mashàl, una parabola, una favola efficace. «Ascolta, un uomo molto povero aveva un unico bene, una pecora, una sola, che viveva in casa sua, coccolata come una figlia. E aveva un vicino, proprietario di migliaia di pecore e altri bestiami, ricco di tutto... E questo riccone, aspettando un visitatore, per preparargli arrosto di pecorella, manda i servi in casa del vicino, e quella sua unica pecora verrà servita allo spiedo alla sua tavola ingorda!». Il re s’infiamma: «In nome di Dio, quel farabutto merita la morte!». «Quell’uomo sei tu!». Così lo gela il profeta. «E il Signore in cambio del tuo crimine farà morire il figlio che ti è nato da Betsabea!». Il bambino si ammala, David si flagella, implora, digiuna fino a quasi morirne: ma il figlio suo e di Betsabea sarà inesorabilmente, dal fulmine del Signore, incenerito.
La Scrittura qui ci sorprende: dai bisbigli dei servi il re comprende che il figlio è morto; si alza, ordina abiti sfarzosi e una cena succulenta. Ne dà questa spiegazione: «Finché c’era speranza che guarisse ho pregato e digiunato; ora che è morto mi tolgo dagli stracci da penitente e mangio di nuovo come un re!». Tornato in forze, si abbandona a ogni specie di Kamasutra con la sua usurpata e amata Betsabea. Si arma e parte per sterminare gli Ammoniti; i suoi tristi ozi sono finiti.
Un altro figlio nascerà dalla sensibile Betsabea: la leggenda lo celebrerà come il più sapiente dei re, il più potente, il più straripato di ricchezze in Gerosolima.
Salomone sarà il suo nome.
(Guido Ceronetti)
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