LA RIVOLUZIONE DI GIUDA 2


Menahem si affacciò alla finestra:

— Ma non vengono dunque? non vengono?

— Quel disgraziato di Barabba ha i calli ai piedi, risposi tranquillamente io.

— Fra un'ora le porte della città saranno chiuse, riprese Menahem.

— E con ciò? Sei stato invitato a cena da Pilato?

No, ma restar fuori di notte…

— Raffreddarsi questa notte, quando si deve esser crocifissi domani sera....

— Domani è sabato, rispose Menahem senza scomporsi.

— Ve beh…dopodomani.

— Tu credi che finirà così?

— Tutto dipende da voi.

Hannah mi chiamò.

Menahem restò a riflettere, la schiena appoggiata ad un angolo della finestra, la testa alta, lo sguardo perso nel cielo. Lo additai ad Hannah che scrollò le spalle.

Una pietra pomice si sarebbe commossa più di lui.

Menahem aveva allora la mia età: non ancora ventitrè anni. Superava la statura ordinaria degli uomini della Siria. Aveva la pelle abbronzata, il naso leggermente ricurvo, i denti bianchi come quelli dei carnivori del deserto, la fronte annegata sotto una foresta di capelli neri come quelli di Giuditta, separati sul cocuzzolo, alla moda dei Galilei, il suo collo alto, rotondo, liscio come una colonna di porfido, tutto indicava in lui il coraggio, la forza, la volontà e l'amore. Io ammiravo quella figura mezza nell'ombra, e mezza immersa nella luce, quello sguardo che scrutava le profondità. Menahem portava una tonaca color vino, legata al fianco con una fascia bianca, da cui usciva una spada con l’impugnatura d'oro, più corta di quelle usate dai Romani. Un mantello nero copriva tutta la persona fino alle ginocchia.

Eh! Dissi io – alla fine ci sarà un pasto reale per i cani!

In quel momento, una voce stridula e dei passi rumorosi si fecero udire. Poi la porta s'aprì e Barabba, seguito da Justus, entrò trionfalmente.

— Non è colpa mia, sagan — miagolò— non è mia colpa se siamo in ritardo. Vi devo raccontare cosa mi è successo!”

Là dove Barabba entrava, entrava il rumore. Ovunque si presentasse, tutti erano intorno a lui a festeggiarlo. Cominciava facendo ridere, si finiva col bastonarlo. Se un giorno non verniva picchiato da qualcuno, la sera s’intrisiva e, per consolarsi, si ubriacava.

Camminava tutto di traverso. La parte sinistra del suo corpo spingeva avanti ed in alto la destra: in modo che i suoi occhi correvano verso le tempie, la bocca verso l'orecchio, il naso, il mento. Il colpo di un gladiatore, ricevuto in una rissa, aveva causato questa deviazione sulla sua faccia. Dei denti, non si parlava più. Una barba grigia, dei capelli grigi, facevano ombra al suo naso rosso, venato d'azzurro, pieno di porri neri.

Barabba aveva servito nelle legioni Romane per vent'anni, a piedi ed a cavallo, poi era ritornato a Gerusalemme, presso sua moglie, la quale, credendolo morto dieci volte, se n'era consolata venti. Nessuno avrebbe potuto dire a che Dio egli credesse, se questo disgraziato pagano non si fosse affrettato a dimostrare, dalle sei del mattino alle sei della sera, che adorava Bacco. Nessuno poi gli aveva mai visto un mantello o una tonaca che non fossero a pezzi.

Un uomo simile, nato in una provincia della Palestina, non poteva che arruolarsi fra gli Erodiani e divenire uno dei loro capi.

Entrando, Barabba pestò i piedi nudi di Moab, diede una spinta a Menahem, allungò la mano per staccare la borsa dalla mia cintura, rotolò sul sagan per sedersi vicino a lui, e inciampando immerse il capo nello stomaco di Justus. Aveva già brancolato dovunque, nei capelli di Moab, sul mantello di Menahem, nelle tasche del sagan. Finalmente sembrò equilibrarsi in mezzo al salone, e dopo aver sbadigliato, gridò con voce acuta:

— Questa ve la devo raccontare.

— Vedi di non farla lunga, disse il sagan.

— Come sempre, o sagan. Sì, m'ero incontrato con Justus sotto il porticato d'Erode ed ero andato con lui al Tempio per portare, come gli altri, la mia offerta al Signore. Io volevo essere splendido, ed offrire un giovane toro. M'avvicino, nel mercato, ad un mercante, e gliene domando il prezzo. — Venti sicli, mi dice lui. — L'hai per caso rubato?, gli rispondo io, per vendere un animale così nobile ad un prezzo così basso? venti sicli è regalato!— Mi scusi, grida il mercante, venti sicli? ho detto venticinque. — Ah! così va bene, rispondo io, e metto la mano nella tasca destra della tonaca. Cerco e ricerco, non avevo i venticinque sicli. — Allora, dice Justus, offri un montone!— È vero, dico a me stesso, un montone è proprio un'offerta da re! E mi rivolgo ad un pastore dei monti di Moab che ne aveva in vendita uno stupendo. — Che prezzo mi fai per questa bestia? — Venti denari, capitano, risponde il montanaro. — Vergogna! un montone che ha delle corna da far morire di rabbia Mosè? che ha la lana soffice come i baffi del rettore Simeone? Le bestie sono così in abbondanza nel tuo paese? — E metto la mano nella tasca sinistra. Non avevo i venti denari. — Va là, disse Justus, offri un capriolo. — Bravo, dico io, un capriolo è meglio. Vedo in un angolo un uomo di Samaria che aveva un bel capriolo bianco con delle macchie scure e un muso rosa come una vergine del Tempio, degli occhi teneri e lacrimosi. Lo avrei mangiato di baci — cotto al punto giusto e bagnato con una goccia d’olio, con un ramo di rosmarino. Costava solo tre denari (due lire e mezza). Prendo la borsa dalla cintura: i tre denari non c'erano — Senti, dice Justus, anche una colomba può andare bene. Comprane una e finiamola. — - E’ precisamente quello che pensavo io già da questa mattina, rispondo. Una colomba bianca come le ali d'un angelo.... Mi decido dunque per la colomba. Non costa che un mezzo denaro. Guardo, frugo, rifrugo in tutte le mie tasche; poi stendo la mano al mio amico Justus, e gli dico: prestami un mezzo denaro. Ah! se aveste visto che faccia m'ha fatto! Come se gli avessi chiesto un rene!

— Il fatto è che, protestò Justus, te ne ho prestati tanti di sicli, denari e mezzi denari....

— Meglio, dico io, pensa quanti soldi riceverai quando te li restituirò! Finalmente, gettando un sospiro, Justus mi mette in mano la moneta che gli ho chiesto. Volete che ve lo dica? non avevo mangiato nulla fino da jeri, e non avevo bevuto niente, all'infuori di alcuni sorsi d'acqua della fontana di Salomone. Il Signore, lui, aveva ricevuto un così gran numero di bestie d'ogni specie, che non avrebbe più accettato altro. Mi decidevo dunque a bere la mio colomba e mi mettevo il mezzo denaro in tasca, allorché sento delle grida arrivare dalla parte della porta di Bronzo. Un tafferuglio nella città di Gerusalemme senza di me! dico io: non sia mai! E corro. Era della gentaglia, che avendo trovato una giovane donna nel sobborgo di Besetha, in flagrante delitto d'adulterio con un soldato legionario Romano, la conduceva dinanzi al Sinedrio perché fosse condannata ad esser lapidata.

Moab alzò la testa, che aveva tenuto fino ad allora appoggiata sulle ginocchia.

(continua)