La strage dei Valdesi di Calabria fu
perpetrata dalla fine di maggio al giugno del 1561. Popolazioni di religione valdese, provenienti dalle valli piemontesi
insediatesi in Calabria dal XIII secolo, vissero indisturbate fino al XVI secolo, quando iniziarono a professare
apertamente la loro fede riformata. Sottoposte dall'Inquisizione a persecuzioni e a un regime di
controllo repressivo, si ribellarono provocando l'intervento delle truppe
spagnole del Vicereame di Napoli, che fecero migliaia di vittime.
I vecchi andavano «a morire allegri,
i giovani più impauriti», davanti al procuratore Pansa che «se ne stava sopra le
scale del Tempio, con una canna in mano, sollecitando l'esecutione», e
all'inquisitore Malvicino, che al processo «non si faticava mai di dar
bastonate, schiaffi, pugni, calci e pelar la barba, a quei meschini», e tutti
facevano «le più gran risa del mondo» sentendo i condannati invocare «il nome
di Giesù Cristo» e raccomandare «lo Spirito loro nelle mani di Dio».
Perché servissero di ammonimento,
tutti i cadaveri dei condannati furono squartati e appesi a pali piantati lungo
la strada che da Cosenza conduceva a Morano, presso il confine della Basilicata. Il 12 giugno il gesuita Lucio Croce riferì al padre
provinciale di Napoli Alfonso Salmerón dell'esecuzione dei primi 88 Valdesi su
un totale di 150 condanne a morte. Sarebbe dovuta seguire l'esecuzione di
«cento donne delle più vecchie», da torturare e giustiziare «per avere la
mistura perfetta». ma le condanne vennero sospese per l'intervento di due
gesuiti inviati a confessare i condannati, Lucio Croce e Juan Xavier.
Quest'ultimo rimase ammirato dal senso morale dei calabro-valdesi: «Non si
vedeva mai biastemare; la robba la lasciavano per la strada; non facevano fra
loro questione, né si accusavano l'uno a l'altro, et così dell'altre cose et
virtù morale».
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